La chiesa parrocchiale di Lavenone domina l'abitato

 

Lavenone in Valsabbia Stemma del Comune di Lavenone in Valsabbia

 

I nuclei urbani di lavenone
Capoluogo: Lavenone; frazioni: Presegno e Bisenzio.
Il comune di Lavenone si estende nella zona medio-alta della Valle Sabbia e presenta un territorio prevalentemente montuoso, con un'altitudine che va da un minimo di 330 m ad un massimo di 1953 m.
Il capoluogo, nel quale si addensa circa il 90% della popolazione, è ubicato a fondovalle, sulla statale n. 237 del Caffaro.
L'andamento demografico del capoluogo è tendenzialmente stabile, grazie alle vicinanze ed alla facilità di collegamento con centri economicamente vitali come quelli di Vestone, Odolo e Sabbio Chiese.
Negli ultimi anni alcuni insediamenti industriali nel settore metalmeccanico e chimico hanno diminuito il rapporto di dipendenza economica nei confronti dei suddetti comuni.
Ancora attivo l'artigianato tradizionale. Caratteristico il maglio di Lavenone ove venivano prodotti paioli in rame, bordati e provvisti di manico da calderai esterni.
I centri di Presegno e Bisenzio, già costituenti fino al 1928 il comune di Presegno, distano dal capoluogo rispettivamente 11 e 13 km e sono situati a 1000 e 1062 m sul versante occidentale dell'Abbioccolo.
Sotto l'aspetto socio-economico, questi centri, che ancora nel 1894 contavano 321 abitanti, hanno risentito in maniera drastica della crisi dell'economia agro-silvo-pastorale cui erano tradizionalmente votati, con la conseguente riduzione della popolazione che assomma a poche decine di unità.
Altra località è Vaiale. Il territorio del comune è percorso dal fiume Chiese e dal torrente Abbioccolo.
I monti di Lavenone sono: Corna Blacca; P.sso della Berga; C.no Barzo; P.sso Zeno; C.na Alta; C.ma Traversagna; Dosso Sambuco; P.sso delle Portole; C.ma Caldoline; Paio; Vaghi di Bisenzio; Monti: Pindù; Saurnio; Squassaiotto; Marmentere; Antegolo; Remano; Zeler; Maer; Baitt; Zanarico; Coca Bassa; Coca del Monte; Zovo.

 

La Corna Blacca in Valsabbia

 

La Corna Blacca regina della Valsabbia

 

La storia
Lavino, Lavone, Lavenone e Avenone sono quattro nomi di località bresciane a breve distanza fra loro, quasi sopra una linea retta che congiunge le estremità della Valle Trompia e della Valle Sabbia.
Non sono stati collocati insieme a caso questi nomi, ma, allineandoli vicini, si è pensato ad un comune legame filologico che dovrebbe dare la chiave per sciogliere uno dei tanti enigmi che la toponomastica offre allo studioso di storia locale.
È noto che i nomi ed i luoghi, i paesi e le regioni, hanno in grande maggioranza un'origine geologica e provengono o dalla natura del terreno, o dalla vegetazione in esso preponderante, o da fenomeni tellurici ivi avvenuti, o dal genere di coltivazione, o da altre circostanze consimili.
Talvolta l'etimologia è ancora evidente, come in Castegnato, Castenedolo e Carpenedolo; in qualche caso la storpiatura dialettale del nome ha creato disguidi, nei quali l'indagine del filologo deve rintracciare la forma primitiva.
Rientrano in questo secondo caso anche i quattro toponimi accennati, sull'origine dei quali si presentano due ipotesi.
Se la radicale comune è lav si può pensare o al significato di lava vulcanica della quale vi è traccia in quelle località, o al significato di frana, come nei Lavini di Marco presso Rovereto, accennati da Dante qual esempio tipico di frane.
Lavenone vorrebbe dire, in questa ipotesi, grande frana e suffragherebbe questa etimologia la conformazione stessa del suolo sul quale è sorto il paese, costituito precisamente come un largo spiazzo franoso che declina verso il Chiese.
Ma se la radicale lav si scioglie in lavena (e anche questa etimologia ha le sue buone ragioni), si è dinnanzi a remotissime indicazioni di miniere di ferro o di altri metalli, ora scomparse, ma delle quali dovevano essere ricche in passato le parti più alte della Val Trompia e della Val Sabbia.
Le vicende storiche di Lavenone sono comuni a quelle della Valle Sabbia.
La colonizzazione romana nel II secolo a.C. portò alla sottomissione delle popolazioni di origine ligure-euganea e celtica.
Nel Medioevo il paese gravitò, come gran parte della Valle Sabbia, intorno al centro religioso rappresentato dalla Pieve di Idro.
Passati sotto la dominazione veneta, di cui resta ancora traccia a Presegno in un affresco raffigurante il Leone di S. Marco, Lavenone e l'intera Val Sabbia godettero di un lungo periodo di relativo benessere economico e di autonomia amministrativa.
Si diffuse e si incrementò l'attività della lavorazione del ferro e alla Comunità della Valle, separata fin dal 1453 dal "territorium civitatis", vennero riservati dalla Serenissima speciali privilegi e benefici.
Sulla vecchia Guida Alpina della Provincia di Brescia si afferma: "Che sieno state aperte miniere in Valle Sabbia è certo, ma che da quelle siasi ricavato minerale sufficiente per alimentare un forno non pare".
La negazione sembra troppo recisa e contrastante.
La tradizione suppone sia stata aperta una miniera di ferro nel sito detto Fresù a Gaver, nella valle del Caffaro, ai tre Cristi verso Casto nel Savallese, e nella valletta del Gorgone a Treviso, piombo argentifero e rame trovasi a Barghe e nei dintorni, da Sabbio Chiese a Nozza, e da Preseglie a Provaglio... l'arte metallurgica tuttavia è quivi antichissima, e per copia e bontà di sua lavorazione ebbe posto notevole la siderurgia...
L'istituzione degli altiforni, o forni fusori, risale al IX secolo.
Le foreste sabbine e le vicende guerresche di quei tempi secondavano la siderurgia, onde la Valle Sabbia possedeva da sola dodici altiforni, di cui due a Bagolino, ed uno ad Anfo, Lavenone, Vestone, Barghe, Odolo, Levrange, Ono Degno, Livemmo, Navono e Malpaga di Casto.
Un altro era a Vobarno, un altro vuole la tradizione esistesse a Gaver, monte di Bagolino, e altro forno fusorio aveva pure Lodrone.
Uno solo ne rimane a Bagolino, quasi fiaccola pietosa ricordante i compagni estinti, ed anch'esso da molti anni inattivo.
Quello di Livemmo cessò nel 1847, quello di Vestone nel 1845, gli altri assai prima; di molti etiam periere ruinae e non restano che i nomi, fissati nella tradizione come massi erratici che indicano la loro remota provenienza.
Bagolino, Vestone e Anfo hanno la strada del forno o dei forni, nella Pertica orientale resta il nome del villaggio di Forno d'Ono, a Odolo, una località ha nome Forno, e fra Navono e Odeno è viva la memoria del forno fusorio degli Alberghini, che la tradizione locale attribuisce alle famose e forse leggendarie Donne di fusio, le quali nel secolo XI avrebbero donato generosamente le più belle e ricche montagne d'alpeggio ai comuni di Marmentino, Navono, Odeno, Livemmo, Avenone, ecc.
A Bagolino è pure molto diffuso il cognome Fusi, anticamente De Fusio, evidentemente derivato dall'esercizio o dalla proprietà di un forno fusorfio in quella famiglia che lo ha assunto.
Dunque, se vi erano dei forni fusori, dovevano esistere nelle vicinanze di essi anche le miniere, cioè la vena del minerale, che prestava ai forni la materia prima per la lavorazione dei metalli.
Non è improbabile quindi che anche il nome di Lavenone sia venuto da una di queste vene, anzi da una vena o miniera più vasta delle altre, se l'amplificazione del nome non è senza significato.
Così la toponomastica verrebbe in aiuto della storia, anzi della preistoria, scavando nella nomenclatura popolare gli elementi primitivi per delineare le origini di questa località.
A Lavenone, le officine per la lavorazione del minerale di ferro erano numerose, e qualche tipico residuo rimane ancora.
I suoi operai, maestri nell'arte del ferro, chiamati docimastri o focimastri (maestri del fuoco) emigravano a Venezia, a Milano, in Germania, in Danimarca, in Croazia e Serbia, dovunque ricercati e accolti come l'aristocrazia della mano d'opera siderurgica, e pagati con lauti stipendi.
Questa tradizione, ormai spenta da tre secoli, doveva risalire a tempi remotissimi, quando la Valle Sabbia costituiva quasi un piccolo Stato a sè, e si reggeva indipendente con i propri Statuti, chiusa nelle sue montagne e pulsante di attività come i magli e gli incudini delle sue fucine.
Accanto a questa industria, i valligiani coltivavano quella della lana e del caseificio, lavoravano a scovare materiale da costruzione e da ornamentazione, commerciavano il legname greggio o preparato da fuoco e da lavoro.
L'accennata Guida Alpina ricorda che Lavenone aveva fabbriche di poleghini alla romana e seghe di legnami, e che il Keuper, sul quale è posto, fornisce quarzi, arenarie e conglomerati (gries utilizzati per pavimenti e come pietre refrattarie e da affilare; la dolomia, poco distante, fornisce un bel marmo nero, simile a quello di Varenna.
Le vicende politiche e militari della cosiddetta epopea napoleonica recarono l'inverno economico alle povere valli bresciane e, specialmente, alla Valle Sabbia, dove la piccola industria siderurgica locale e l'industria del lanificio ebbero un tracollo, dal quale non poterono più rialzarsi, con negative ripercussioni demografiche ed economiche generali; Lavenone, come tutti i paesi posti sulla strada nazionale, sentì le conseguenze delle invasioni militari, francesi, tedesche, piemontesi e garibaldine, dal 1797 al 1866, dalla battaglia di Salò a quelle del Monte Suello e di Bezzecca, che avevano fatto ricordare le imprese devastratrici dei Lanzichenecchi del luterano Giorgio Frundesberg, che, nel 1527 discendevano per queste gole valsabbine per il Sacco di Roma.

A proposito della battaglia di Salò, è doveroso ricordare la figura di don Giuseppe Cattazzi di Navazzo di Gargnano, parroco della primitiva chiesa di Lavenone, demolita verso la fine del 1700 perché cadente per vetustà e divenuta troppo angusta per le solenni cerimonie liturgiche.
Entrato in Lavenone il 16 aprile 1761, il 24 agosto 1770 veniva promosso a Bagolino, quindi venne nominato arciprete a Vobarno il 15 aprile 1772.
Fu giustiziato a Salò nel 1797 dai Francesi perché aveva benedetto le bandiere dei valsabbini insorti contro i rivoluzionari bresciani.
Di notevole importanza le vicende storiche del 1848 susseguenti alle Cinque Giornate di Milano e all'entrata in Brescia dell'esercito piemontese con conseguente capitolazione e ritirata della guarnigione austriaca.
Il 6 aprile 1848, il generale piemontese Allemandi, incaricato dal Governo provvisorio di Milano di assumere il comando di alcune migliaia di volontari per una spedizione in Valle Sabbia e in Trentino, affida al comandante Thannberg il presidio dei paesi di Lavenone e Idro.
Il 19 aprile, dopo la destituzione del generale Allemandi, il generale Durando assume il comando delle truppe piemontesi in Lavenone.
Dopo il ritorno della guarnigione austriaca a Brescia e le Dieci Giornate, con l'epopea garibaldina il paese di Lavenone è al centro della linea di demarcazione tra gli eserciti franco-piemontesi e austriaco.
Anche la III guerra d'indipendenza vede impegnate le truppe garibaldine nel I reggimento sul territorio di Lavenone.
La seconda metà del 1800, a Lavenone, è caratterizzata da attività sociali di notevole importanza, coordinate da don Antonio Tabadorini, un pioniere dell'agricoltura montana e della zootecnia, tra le quali la fondazione di un caseificio, l'istituzione di una Associazione Mutua del bestiame bovino, di una società per l'Alpeggio del bestiame bovino, di una cooperativa alimentare e la promozione del miglioramento della razza bovina con l'introduzione di torelli Svitto favorendone così l'esportazione e la divulgazione con scuole serali e mediante conferenze di tecnici sulla concimazione chimica dei prati.
La storia recente ha visto ancora i territorio di Lavenone interessato dalla lotta partigiana per la conquista della libertà e della democrazia.